Anticipiamo fiducia

Per noi tutto serve, ma è solo una persona motivata, un esperto di vita e di amore, un testimone che può convincere un fratello a cambiare modo di esistere“, don Leandro Rossi, Socio Fondatore Cooperativa Sociale Famiglia Nuova

La bellezza del lavoro sociale per noi di Famiglia Nuova si sostanzia nella possibilità che abbiamo di essere riferimento per le persone che accogliamo: lo diventiamo soprattutto quando riusciamo ad anticipare fiducia. L’operatore sociale lavora alla costruzione della relazione d’aiuto, creando presupposti per un rapporto umano reciprocamente fidato, e affidandosi. Deve credere per primo, e convintamente, alla capacità dell’altro di affrancarsi da condizioni di fragilità, senza lasciarsi condizionare da precedenti fallimenti in altri percorsi di recupero, può infatti essere sempre la volta buona e va afferrata al volo, anche quando le “carte” non depongono a favore di un qualche successo.

L’operatore di Famiglia Nuova tiene il fuoco del suo operare sulla persona, non sul sintomo.

In Famiglia Nuova, nell’ambito delle residenzialità, come strumento per il trattamento e la riabilitazione dalle patologie di abuso, dipendenza da sostanze legali e illegali e di forme di dipendenza come il gioco d’azzardo problematico, nei servizi di accoglienza per minori stranieri non accompagnati o per migranti adulti, donne senza fissa dimora, nelle attività di formazione e qualificazione professionale e di accompagnamento al lavoro, le équipe di operatori generano processi relazionali indispensabili per una possibile ridefinizione, sia individuale che sociale dell’utente, attraverso progetti migliorativi della qualità della vita, e la valorizzazione delle risorse, talora residuali, per supportarli ad affrancarsi dalla propria vulnerabilità, implementando le loro competenze personali potenziate da esperienze lavorative e sociali rigenerative.

L’operatore sociale può essere la voce di chi ha perso, o non ha mai saputo chiedere, l’esigibilità dei propri diritti provando a ripristinare, contestualmente, la loro identità di cittadini.

È un lavoro sfidante, che spossa, ma appaga molto. È un insieme continuo di occasioni per trovare un senso profondo in ciò che dobbiamo aver scelto di fare, non si può fare lavoro sociale in modo residuale: accorgerci degli altri, ascoltare i racconti a volte stentati e prolissi, ricchi di informazioni che ci permettono di conoscerci meglio, responsabilizzare le persone che devono essere protagoniste, non comprimarie, delle loro vite, necessita di molta attenzione e passione. Stare con l’altro permette a noi di reggere, se lui sta in piedi sono più forte anch’io. Portare bellezza (il video è qualche riga più in basso) nella vita di persone che hanno vissuto scarto e pregiudizio e brutture di vario genere è prezioso. L’arricchimento che ne deriva accresce l’importanza sociale e spirituale dell’operatore.

I successi, a volte limitati nel lavoro sociale, possono essere entusiasmanti: una casa dignitosa, una stabilizzazione dei rapporti famigliari, un corso di agricoltura sociale che apre a un’attività lavorativa reale, un progetto di recupero dalle dipendenze andato a buon fine che può ricondurre a una certa autonomia, non hanno prezzo di scambio.

Come operatori nel lavoro sociale dobbiamo tendere a questi risultati, anche quando mancano risorse, a volte di ogni tipo.

Operatore

di Giusy Palumbo, da Glossario Fragile, Legacoopsociali, definizione da preferire a educatore, guida, tutor…

La parola spiegata: chi opera, chi compie determinate azioni, chi crea, esegue, fa. Operatore è una parola di movimento, che riconduce sempre ad una dimensione del fare. L’operatore non sta mai fermo, il pensiero sembra escluso in favore del solo agire. C’è una vitalità che seduce, un richiamo all’atto creativo che ci ricorda la lezione di Joseph Beuys per cui “ogni uomo è un artista”. L’operatore interviene sulla realtà, la modifica, la trasforma.

La parola raccontata: la dimensione dell’operare che più ci convince è nella relazione con l’altro. L’operatore nelle cooperative sociali opera con e per l’altro, in termini di accudimento, assistenza, vicinanza, mutualismo. È l’altra faccia dell’utente”, sta nella stessa fragilità, con un ruolo di cura e attenzione, sta a fianco, accompagna, impara.

Operatore è una parola che ci piace, la preferiamo ad educatore, guida o tutor dove la posizione si pone dominante, di un vaso che riversa verso l’altro, perché qui ad operare, in senso più artistico che clinico, si è sempre almeno in due.

E a pensarci bene c’è una parola che basta a restituire tutto il senso: cooperatore.

Rotte di rottura

Quotidianamente, nel mio ondeggiante lavoro educativo, incrocio e attraverso moltissimi volti adolescenti. Volti rivolti talvolta al cielo, talvolta alla terra, talvolta al proprio naso, certe volte alla cerniera delle proprie felpe in cui si incappucciano per sembrare piccoli e invisibili o ancora verso i lacci delle loro scarpe con i quali non si rendono conto di inciampare. Altre volte rivolgo il mio dialogo di sguardi a chi, alzando gli occhi, ricerca la sfida in nome di quell’accanita lotta che lo accompagni a diventare adulto.

Mi imbatto in inesperti soldati corazzati che fingono di saper maneggiare spade e armature, ma così goffi e incapaci di intercettare l’Altro che affrontano adulti che si mostrano draghi, ma che in fondo sanno che sarà uno scontro tra paure. Quelle stesse che poi, lontano dalla polvere della battaglia, occorrerà rimaneggiare e trasformare.

Quella corazza coriacea che, come educatori e operatori sociali, si desidererebbe pugnalare e infrangere subito, ma la cui rottura avviene improvvisamente e non per nostra volontà; assordante e lacerante come tuoni di porte che sbattono, come i pugni supersonici che frantumano pareti, come cellulari le cui comunicazioni vengono volontariamente interrotte da un lancio in lungo il cui fischio continua a riecheggiare; lascia ogni volta attoniti e smarriti.

In quelle crepe interiori e reali ho più volte soggiornato domandandomi quale sentiero percorrere al termine di quell’affannante sosta: ho maledettamente imprecato per l’ennesima anta divelta, per l’ennesimo specchio i cui riflessi sono stati mandati in frantumi, ho obbligato a ripulire, ho punito e rimproverato, ma infine, al termine delle furie, ho finalmente dischiuso il mio sentire all’udire i loro: Cheppalle-che rottura, o qualsiasi loro forma più volgare espressa impulsivamente da tutti questi cavalieri inesistenti.

“Navigo sulle argille di vecchie paure,

da fuori sembro sano,

ma all’interno ogni giorno dentro il mio corpo frano.

I demoni tirano

dal basso, sono tutta creta, neppure una pianta,

un sasso.” (Franco Arminio, 2021, Cedi la strada agli alberi. Tea, Milano.)

A quelle rotture, oggi, a distanza di tentativi, sbagli e anche buone riuscite, vorrei riconsegnare un significato trasformativo e pedagogico provando a dare qualche interpretazione alla domanda in cui ogni volta mi imbatto: che cosa combiniamo con questi cocci che ritroviamo a terra?

La domanda è molto più concreta di ciò che può apparire.

Di fronte ad una sedia in frantumi, ad un buco nel muro, ad un telefono esploso e sfasciato, come ci comportiamo? Ne gettiamo i pezzi? Li lasciamo a terra? La facciamo ripagare e scontato il debito sarà tutto come prima? Li chiudiamo stretti stretti in un sacco nero e passiamo subito al rimprovero o la punizione? Prendiamo la colla trasparente e li ricomponiamo nascondendo ogni traccia di quei frantumi?

In questo marasma di scelta, vale la pena ritornare sulla parola rompere, sulle sue analogie ed usi. Tra i sinonimi di rompere, il dizionario Treccani suggerisce: decomporre – disgregare, scomporre, smembrare, smontare, spaccare. Se affondiamo le radici nel contesto della matematica si parla spesso di far esplodere un problema, per arrivare alla sua risoluzione, nelle relazioni umane quando qualcuno ha ottenuto un successo lo si incoraggia con un Ehi, hai spaccato! – e ancora – quando si desidera ardentemente uscire dai binari prestabiliti e non scelti, si tenta di rompere gli schemi. Quanta energia, desiderio, sogno, sta racchiuso nella distruzione sognante di un bambino di fronte al suo uovo di cioccolato ripieno di qualsivoglia sorpresa?!

Tutto sembra rimandare ad una sorta di riduzione, alla necessità di disossare, di scovare la parte più piccola dell’intero, al ritrovarne radici, all’essenza, al cuore delle cose stesse.

Dissociarsi dall’idea di ogni rottura come pura distruzione, significa scegliere a nostra volta di spezzare quel legame apparentemente inscindibile dell’adolescente arrabbiato che rompe il mondo per il piacere di distruggerlo e avvicinarsi alla necessità di comprendere i significati dei suoi gesti.

Non sarà forse un grido dall’allarme allo struggente bisogno, talvolta, di comprendere e di conoscere, per riorientarsi? Significa aprire orizzonti di crescita per affrontare al meglio la sfida della complessità.

Lascia un commento